lunedì 1 dicembre 2014

Il sogno di Maria

Anni fa, durante un viaggio a Lisbona, sono entrata in una chiesa aperta all’ora di pranzo, un’ora insolita per noi italiani. Appena entrata mi ha avvolto la penombra. Nessuna luce artificiale, solo qualche candela accesa. Quella chiesa antica  esprimeva la sua sacralità attraverso la cura dell’arte in ogni particolare. Vi regnava un rispettoso silenzio. Camminavo quasi in punta di piedi per non sentire neppure la mia presenza quando, poggiato sulla cassetta delle offerte di una navata laterale, ho visto un foglietto giallo che ha attirato la mia attenzione: di quello scritto in lingua portoghese ho capito soltanto qualche parola, ma quanto bastava per decidere di portarlo via con me per farlo tradurre al mio rientro. Ora, all’inizio del tempo di Avvento, a poco meno di un mese dal Natale, desidero condividere quel breve racconto, così attuale…

(Lisbona, Santa Casa della Misericordia – 14 luglio 2003)
Ho fatto un sogno, Giuseppe.
Non ho capito molto bene ma sembrava riguardasse i compleanno di nostro Figlio. Mi sembra riguardasse ciò. Alcune persone preparavano da sei settimane questa festa. Avevano decorato e illuminato la casa e comprato lenzuola nuove. Entravano molte volte nei negozi per fare acquisti e comprare regali bellissimi. Ma era curioso notare che questi doni non erano per nostro figlio. Incartavano questi regali con carta molto bella, li legavano con nastri di vari colori e li mettevano sotto un albero. Sì, un albero, Giuseppe, dentro la loro casa! Anche l’albero era ornato. I rami erano pieni di palline luminose e decorazioni brillanti. C’era anche una figura nella punta più alta dell’albero. Sembrava la figura di un angelo. Oh, era così bello!
Tutta la gente rideva e si mostrava felice.
Tutti si entusiasmavano per i regali. Si scambiavano i regali gli uni con gli altri, Giuseppe. Non li davano a nostro Figlio che compiva gli anni. Avevo l’impressione che le persone neppure Lo conoscessero perché non nominavano neanche il Suo nome.
Non è strano che delle persone si diano tanto da fare per celebrare il compleanno di una persona che neppure conoscono? Ho avuto la sensazione che se nostro Figlio fosse apparso in quella festa sarebbe stato un intruso e certamente non sarebbe stato bene accetto.
Tutto era così bello, Giuseppe, e tutta la gente era così contenta ma… mi veniva tanta voglia di piangere!  Che tristezza per nostro Figlio Gesù non essere considerato nemmeno nella festa del Suo compleanno! Sono stata contenta che si trattasse solo di un sogno. Che cosa terribile, Giuseppe, se questa fosse la realtà! 

domenica 23 novembre 2014

L'esodo da Buoncammino

La città di Cagliari sembra sotto assedio. Chiusi al traffico i tratti di strada tutt’attorno a Buoncammino per il grande esodo dei detenuti. Dei ristretti, come ora si preferisce chiamarli.
Dalla piccola chiesa di san Lorenzo, posta in cima alla collina dove sorge il carcere, oggi all’uscita della messa ho assistito alle operazioni di trasferimento. Polizia e carabinieri sparsi ovunque, vigili urbani a dirottare il traffico verso le vie più esterne, mentre un elicottero sorvolava continuamente la zona compiendo cerchi nell’aria e il rombo assordante delle pale riempiva le orecchie e il cuore. Anche lui ristretto. Davanti a me un pugno di persone rivolgeva grida di saluto a facce lontane e paia di mani aggrappate alle sbarre delle finestre: “Ciao Michele, a presto! Ciao”. Voci lanciate a piccole figure drammatiche, già più distanti.
Sarà che l’aria era piena di suoni irreali, sarà che quei saluti mi hanno toccato il cuore, sarà che ogni domenica i piccoli racconti di vita quotidiana gridati da un costone all’altro della collina erano diventati parte del sacrificio della messa: “Come stai?” “Io bene!” “E il bambino come sta? A scuola?”, mentre un coro di fedeli, dentro la chiesa, accompagnava lo scambio di notizie familiari con il Padre Nostro.
Ma ora quel Padre Nostro sarà un po’ più spoglio, senza quelle voci a ricordarci che prima di chiedere perdono dei nostri errori è bene ricordarsi di perdonare quelli altrui.




domenica 16 novembre 2014

La busta bianca



L’altro giorno, tornando a casa, ho trovato sul mobile una busta bianca indirizzata a me. Una di quelle buste che contengono una richiesta di aiuto per i tanti bisogni che montano ovunque come l’alta marea e che si infrangono con un ultimo respiro affannoso sui mobili d’ingresso delle nostre case, nella speranza di non finire miseramente nel cestino ancora sigillate ma di essere almeno aperte e lette da qualcuno. Dentro la busta, insieme ad una lettera di sensibilizzazione, c’era un libriccino colorato, con una storia per bambini. Il racconto narrava le vicissitudini di un piccolo bruco che dopo un bellissimo sogno in cui si trovava in cima una montagna da cui si dominava l’intera vallata, decide di mettersi in viaggio per raggiungere quel luogo. Strada facendo incontra una coccinella che, saputo dal bruco le sue intenzioni, gli dice “Ma tu devi essere pazzo! Per te, un sassolino sarà come una montagna, ogni pozzanghera un mare e ogni cespuglio una barriera impossibile da oltrepassare.” Ma il bruco è troppo deciso a seguire il suo sogno e nonostante i consigli degli altri animali che incontra, tutti contrari a quest’avventura pericolosa e impossibile, continua il suo cammino. Fino al momento in cui, troppo stanco per continuare, si ferma immobile. Per giorni tutti gli animali si avvicinano a guardare i resti dell’animale più pazzo del mondo, morto per avere inseguito il suo sogno impossibile. Ma all’improvviso da quel bozzolo grigio sbucano due grandi occhi su due lunghe antenne e un paio di bellissime ali colorate. In un istante prende il volo e raggiunge la cima della montagna. Il sogno è finalmente diventato realtà.


Chi mi ha spedito questa bella storia è una associazione che si occupa di bambini sordociechi e pluriminorati psicosensoriali. Si, perché ci sono tanti bambini che nascono privi contemporaneamente del dono della vista e dell’udito e che crescono isolati dal mondo e che possono comunicare con l’esterno soltanto attraverso il tatto, e in qualche misura con l’olfatto e il gusto. Certo, non si può minimamente immaginare a quali conseguenze si va incontro, a causa di questa menomazione, nelle infinite situazioni del vivere quotidiano. E quanto può risultare complicato e  frustrante per chi si occupa di questi piccoli, tentare di inventarsi un linguaggio nuovo per poter dialogare con chi è così fortemente penalizzato ed escluso da una normale vita sociale. Quanto può essere difficile immaginare di creare un ponte tra questi bambini e il resto del mondo. Eppure ci sono persone di buona volontà che lo credono possibile. Anzi, non solo lo credono, ma sono già in cammino verso la cima della montagna, contro ogni ragionevole dubbio. Persone che lavorano con infinito amore e che, come il piccolo bruco, ci insegnano che i sogni possono diventare realtà. Anche grazie ad un piccolo gesto come quello di non cestinare una busta bianca, che in un giorno qualunque, è arrivata a bussare alla nostra porta.


giovedì 13 novembre 2014

I due gemelli


Oggi tanti si sentono perduti, privi di sostegno e privi di speranza nel futuro. Intorno il buio sembra prendere il sopravvento. Mi ha colpito in questi giorni la sofferenza profonda di alcune persone vicine che, non avendo neppure la grazia della fede, non sperano nel domani. Come se tutto ciò che hanno conosciuto, sperimentato, imparato e amato dovesse finire qui, nel nulla più assurdo. A loro dedico questa piccola storia di un anonimo autore...
Nel ventre di una donna incinta si trovavano due bebè. Uno dei due gemelli chiese all'altro:
- Tu credi nella vita dopo il parto?
- Certo. Qualcosa deve esserci dopo il parto. Forse siamo qui per prepararci per quello saremo più tardi.
- Sciocchezze! Non c'è una vita dopo il parto. Come sarebbe quella vita?
- Non lo so, ma sicuramente... ci sarà più luce che qua. Magari cammineremo con le nostre gambe e ci ciberemo dalla bocca.
- Ma è assurdo! Camminare è impossibile. E mangiare dalla bocca? Ridicolo! Il cordone ombelicale è la via d'alimentazione... Ti dico una cosa: la vita dopo il parto è da escludere. Il cordone ombelicale è troppo corto.
- Invece io credo che debba esserci qualcosa. E forse sarà diverso da quello cui siamo abituati ad avere qui.
- Però nessuno è tornato dall'aldilà, dopo il parto. Il parto è la fine della vita. E in fin dei conti, la vita non è altro che un'angosciante esistenza nel buio che ci porta al nulla.
- Beh, io non so esattamente come sarà dopo il parto, ma sicuramente vedremo la mamma e lei si prenderà cura di noi.
- Mamma? Tu credi nella mamma? E dove credi che sia lei ora?
- Dove? Tutta intorno a noi! E' in lei e grazie a lei che viviamo. Senza di lei tutto questo mondo non esisterebbe.
- Eppure io non ci credo! Non ho mai visto la mamma, per cui, è logico che non esista.
- Ok, ma a volte, quando siamo in silenzio, si riesce a sentirla o percepire come accarezza il nostro mondo. Sai?... Io penso che ci sia una vita reale che ci aspetta e che ora stiamo soltanto preparandoci per essa...

sabato 8 novembre 2014

Troverò ancora la fede nel mondo?

Dopo gli osanna i crucifige. Papa Francesco come Gesù: prima esaltato e poi condannato. Dopo la festa, una croce sul monte. E nel tragitto, le urla feroci degli amici di un’ora. «Ma quando tornerò – si chiedeva Gesù – troverò ancora la fede nel mondo?»
Il Papa, oggi alla guida di un sempre più piccolo e perseguitato gregge, ha il duro compito di custodire quel che resta della fede, per restituirla moltiplicata nel suo ultimo giorno. Con l’aiuto di Dio. E con la collaborazione di ogni cristiano. Ma non tutti quelli che si professano tali sono disposti a lasciarsi guidare dal vicario di Cristo fino alla meta. E le loro urla feroci inondano le pagine dei giornali e arrivano come uno tsunami sulla rete, tentando di avvelenare ciò che resta della fede.
«Quando tornerò troverò ancora la fede nel mondo? »
Questa domanda mi assilla, riguarda anche a me. Un interrogativo che spaventa, perché puzza di tradimento. Mi guardo intorno e vedo che ovunque la fede è messa a dura prova. E la mia? Può resistere ai colpi del nemico? Ovunque persecuzioni, disprezzo, odio, emarginazione, solitudine. Nell’indifferenza generale.
Forse quest’ultima è tra tutte la più pericolosa. La fede che scivola via a piccoli pezzi, giorno dopo giorno. La perdita di sensibilità che avviene nell’ombra, a nostra insaputa. Ma che alimentiamo da soli, nell’accettare un piccolo compromesso, una bugia detta a fin di bene (ma quale bene può portare la menzogna?). O nel chiudere un occhio davanti alle quotidiane ingiustizie che affollano i nostri giorni e si consumano in ogni luogo. Che anche noi compiamo, trovando sempre mille alibi per giustificare le nostre mancanze. A volte l’alibi è proprio dato dalla nostra “grande” fede, che ci porta ad erigerci a giudici dell'operato altrui, Papa compreso. E in nome di questa grande fede, ci si allontana dalla verità del messaggio di Dio, che ha come unico mezzo e come fine ultimo l’amore. 
No, senza la forza che viene da Dio, no, non possiamo sperare di custodire la nostra debole fede. Soprattutto quando subisce la prova dei tradimenti interni alla Chiesa. Ma il cammino è ancora lungo e illuminato dalla speranza che dopo la notte viene sempre il giorno. Perché – come dice Gesù – «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa. E le porte degli inferi non prevarranno contro di essa…»

mercoledì 5 novembre 2014

La bestemmia del dolore

Oggi ho letto su internet una lettera scritta da un uomo, un durissimo attacco alla Chiesa e ai cristiani. Visti i tempi, niente di strano. Tanti usano fare il tiro a segno su coloro che ancora resistono nel tenersi stretta al cuore la fede, nonostante i venti contrari soffino sempre più forte e sempre più ferocemente. Ma quella lettera, nonostante gli insulti al Cielo che a tratti sfioravano la bestemmia, mi ha colpito al cuore. Mi ha intenerita. Credo che l’intenzione di chi l’ha scritta fosse ben altra, i toni non lasciavano spazio a dubbi. Eppure, al di là di ogni ragionevole perplessità, ho provato un senso di grande dolore. Non per me. Per lui. Tra le righe sporche, in mezzo a tanto strepito, ho sentito con chiarezza che in quelle parole palpitava un’anima ferita, o profondamente delusa. Quel dolore così vivo e chiaro ha cancellato in me ogni residuo di barriera mentale: non vedevo più da una parte i cristiani, impegnati a difendersi, e dall’altra i nemici della Chiesa. Il suo grido disperato è rimbalzato dentro le pareti di un grande noi che tutto accoglie, dove c’è spazio e cibo e calore e amore per l’altro. Anche l’altro che sfoga la sua rabbia e il suo dolore sulla tua carne tenera. Ma la sua è piagata. Allora mi sono messa davanti alla mia piccola candela di Gerusalemme… e ho pregato per noi.

domenica 2 novembre 2014

Chiedo silenzio

 (Pablo Neruda)
Ora, lasciatemi tranquillo.
Ora, abituatevi senza di me.
Io chiuderò gli occhi
E voglio solo cinque cose,
cinque radici preferite.
Una è l'amore senza fine.
La seconda è vedere l'autunno.
Non posso vivere senza che le foglie
volino e tornino alla terra.
La terza è il grave inverno,
la pioggia che ho amato, la carezza
del fuoco nel freddo silvestre.
La quarta cosa è l'estate
rotonda come un'anguria.
La quinta cosa sono i tuoi occhi.
Matilde mia, beneamata,
non voglio dormire senza i tuoi occhi,
non voglio esistere senza che tu mi guardi:
io muto la primavera
perché tu continui a guardarmi.
Amici, questo è ciò che voglio.
E' quasi nulla e quasi tutto.
Ora se volete andatevene.
Ho vissuto tanto che un giorno
dovrete per forza dimenticarmi,
cancellandomi dalla lavagna:
il mio cuore è stato interminabile.
Ma perché chiedo silenzio
non crediate che io muoia:
mi accade tutto il contrario:
accade che sto per vivere.
Accade che sono e che continuo.
Non sarà dunque che dentro
di me cresceran cereali,
prima i garni che rompono
la terra per vedere la luce,
ma la madre terra è oscura:
e dentro di me sono oscuro:
sono come un pozzo nelle cui acque
la notte lascia le sue stelle
e sola prosegue per i campi.
E' che son vissuto tanto
e che altrettanto voglio vivere.
Mai mi son sentito sé sonoro,
mai ho avuto tanti baci.
Ora, come sempre, è presto.
La luce vola con le sue api.

Lasciatemi solo con il giorno.
Chiedo il permesso di nascere.

sabato 1 novembre 2014

Festa dei santi


Festa dei santi, di tutti i santi. Anche di quelli che non hanno nome e che magari hanno sfiorato per un soffio di tempo le nostre vite. Forse li abbiamo incrociati per strada, o sono saliti sul pullman dove avevamo preso posto. Li abbiamo guardati negli occhi senza conoscerli, ma nel loro sguardo abbiamo colto qualcosa che ci ha fatto sussultare il cuore di emozione, senza capire perché.

Qualcuno, invece, ci è stato più vicino, accompagnando i nostri passi con discrezione, in punta di piedi. Fino alla fine del loro giorno terreno. Penso alla mia tenera zia, che un ritardo mentale aveva relegato in un mondo di gioiosa infanzia, nonostante i suoi capelli bianchi e indomabili, come il suo sorriso. Per il mondo di fuori, un orpello inutile la sua esistenza. Per il nostro mondo familiare, un’oasi di purezza dove far riposare l’anima. Ciao zia. Grazie della tua santità.

martedì 28 ottobre 2014

La Bellezza salverà il mondo

Qualche giorno fa ho sentito dalla viva voce del protagonista, un sacerdote, il racconto di un’esperienza che l’ha segnato profondamente.
Si trovava in visita al Cottolengo di Torino, o meglio, alla Piccola Casa della Provvidenza: una suora lo accompagnava lungo i corridoi dell’istituto e ad un tratto, senza alcun preavviso, lo introdusse in una stanza dove si trovavano ricoverati alcuni ospiti. Il loro aspetto era terribile, mostruoso. Inumano. La vista di quell’ammasso di carni informi gli provocò un tale stato di choc che fu costretto ad uscire dalla stanza per riprendersi.
La suora lo raggiunse subito, il viso sempre sorridente. Le chiese: “Sorella, ma come fa a vivere qui?”
Lei, con gli occhi pieni di stelle lucenti, rispose: “Io spero invece che nessuno mi chieda mai di andare via…”. E il sacerdote, sempre più incredulo: “Ma… perché? Come si può guardare ogni giorno tutto questo?”. La suora, senza abbandonare il suo sorriso dolcissimo, rispose: “Non è per quello che vedo. E’ per quello che non si vede…“
Dostoevskij faceva dire al principe Miškin ne L'idiota che “La bellezza salverà il mondo”. Ma quale bellezza?
Reyhaneh Jabbari, la ragazza iraniana giustiziata pochi giorni fa per aver ucciso il suo stupratore, diceva nel suo testamento: “…Ho capito che la bellezza non è  fatta per questi tempi. La bellezza dell’aspetto, la bellezza dei pensieri e dei desideri, la bella calligrafia, la bellezza degli occhi e di una visione, e persino la bellezza di una voce piacevole.”

La bellezza si ammira. E’ una scoperta inaspettata. Suscita amore. Forse la bellezza è come la verità, va ricercata con onestà e sguardo limpido. Quella bellezza che emana da tutte le cose ma che solo un cuore puro può scoprire. La bellezza che gioca a nascondersi anche in un corpo informe, mostruoso. Ma che dentro conserva la firma di Dio. Quando riusciremo ad avere questo sguardo, allora sì, potremo dire: 

lunedì 27 ottobre 2014

Reyhaneh Jabbari: "Lascia che il vento mi porti via"



Reyhaneh Jabbari, iraniana di ventisei anni, è stata condannata a morte nel suo paese per aver ucciso un uomo che aveva tentato di stuprarla all’età di diciannove anni. Per due volte l’esecuzione era stata rimandata, anche grazie alle proteste di chi voleva affermare il diritto di difendersi da un atto così odioso, che lede profondamente la dignità umana. Ma da pochi giorni Reyhaneh non c’è più.
Di lei ci rimane un prezioso testamento, un ultimo addio rivolto alla madre, Shole. Questa la lettera di Reyhaneh: la riporto integralmente perché le sue parole, tanto gravi e belle, faranno riflettere un po’ tutti…
Cara Shole,
oggi ho appreso che è arrivato il mio turno di affrontare la Qisas (la legge del taglione del regime ndr). Mi sento ferita, perché non mi avevi detto che sono arrivata all’ultima pagina del libro della mia vita. Non pensi che dovrei saperlo? Non sai quanto mi vergogno per la tua tristezza. Perché non mi hai dato la possibilità di baciare la tua mano e quella di papà?
Il mondo mi ha permesso di vivere fino a 19 anni. Quella notte fatale avrei dovuto essere uccisa. Il mio corpo sarebbe stato gettato in un qualche angolo della città e, dopo qualche giorno, la polizia ti avrebbe portata all’obitorio per identificare il mio cadavere, e avresti appreso anche che ero stata stuprata. L’assassino non sarebbe mai stato trovato poiché noi non godiamo della loro ricchezza e del loro potere. E poi avresti continuato la tua vita nel dolore e nella vergogna, e un paio di anni dopo saresti morta per questa sofferenza, e sarebbe finita così.
Ma a causa di quel colpo maledetto la storia è cambiata. Il mio corpo non è stato gettato via, ma nella fossa della prigione di Evin e nelle sue celle di isolamento e ora in questo carcere-tomba di Shahr-e Ray. Ma non vacillare di fronte al destino e non ti lamentare. Sai bene che la morte non è la fine della vita.
Mi hai insegnato che veniamo al mondo per fare esperienza e per imparare una lezione, e che ogni nascita porta con se’ una responsabilità. Ho imparato che a volte bisogna combattere. Mi ricordo quando mi dicesti che l’uomo che conduceva la vettura aveva protestato contro l’uomo che mi stava frustando, ma quest’ultimo ha colpito l’altro con la frusta sulla testa e sul volto, causandone alla fine la morte. Sei stata tu a insegnarmi che bisogna perseverare, anche fino alla morte, per i valori.
Ci hai insegnato andando a scuola ad essere delle signore di fronte alle liti e alle lamentele. Ti ricordi quanto hai influenzato il modo in cui ci comportiamo? La tua esperienza però è sbagliata. Quando l’incidente è avvenuto, le cose che avevo imparato non mi sono servite. Quando sono apparsa in corte, agli occhi della gente sembravo una assassina a sangue freddo e una criminale senza scrupoli. Non ho versato lacrime, non ho supplicato nessuno.  Non ho cercato di piangere fino a perdere la testa, perché confidavo nella legge.
Ma sono stata incriminata per indifferenza di fronte ad un crimine. Vedi, non ho ucciso mai nemmeno le zanzare e gettavo fuori gli scarafaggi prendendoli per le antenne. Ora sono colpevole di omicidio premeditato. Il mio trattamento degli animali è stato interpretato come un comportamento da ragazzo e il giudice non si è nemmeno preoccupato di considerare il fatto che, al tempo dell’incidente, avevo le unghie lunghe e laccate.
Quanto ero ottimista ad aspettarmi giustizia dai giudici! Il giudice non ha mai nemmeno menzionato che le mie mani non sono dure come quelle di un atleta o un pugile. E questo paese che tu mi hai insegnata ad amare non mi ha mai voluta, e nessuno mi ha appoggiata anche sotto i colpi dell’uomo che mi interrogava e piangevo e sentivo le parole più volgari. Quando ho rimosso da me stessa l’ultimo segno di bellezza, rasandomi i capelli, sono stata premiata con 11 giorni di isolamento.
Cara Shole, non piangere per quello che senti. Il primo giorno che nell’ufficio della polizia un agente anziano e non sposato mi ha colpita per via delle mie unghie, ho capito che la bellezza non è  fatta per questi tempi. La bellezza dell’aspetto, la bellezza dei pensieri e dei desideri, la bella calligrafia, la bellezza degli occhi e di una visione, e persino la bellezza di una voce piacevole.
Mia cara madre, il mio modo di pensare e cambiato e tu non sei responsabile. Le mie parole sono senza fine e le darò a qualcuno in modo che quando sarò impiccata senza la tua presenza e senza che io lo sappia, ti verranno consegnate. Ti lascio queste parole come eredità.
Comunque, prima della mia morte, voglio qualcosa da te e ti chiedo di realizzare questa richiesta con tutte le tue forze e tutti i tuoi mezzi. Infatti, è la sola cosa che voglio dal mondo, da questo paese e da te. So che hai bisogno di tempo per questo. Per questo ti dirò questa parte del mio testamento per prima. Per favore non piangere e ascolta. Voglio che tu vada in tribunale e presenti la mia richiesta. Non posso scrivere questa lettera dall’interno della prigione con l’approvazione delle autorità, perciò ancora una volta dovrai soffrire per causa mia.  E’ la sola cosa per cui, anche se tu dovessi supplicarli, non mi arrabbierei – anche se ti ho detto molte volte di non supplicarli per salvarmi dalla forca.
Mia buona madre, cara Shole, più cara a me della mia stessa vita, non voglio marcire sottoterra. Non voglio che i miei occhi o il mio cuore giovane diventino polvere. Supplicali perché subito dopo la mia impiccagione, il mio cuore, i reni, gli occhi, le ossa e qualunque altra cosa possa essere trapiantata venga sottratta al mio corpo e donata a qualcuno che ne ha bisogno. Non voglio che sappiano il mio nome, che mi comprino un bouquet di fiori e nemmeno che preghino per me. Ti dico dal profondo del cuore che non voglio che ci sia una tomba dove tu andrai a piangere e soffrire.  Non voglio che tu indossi abiti scuri per me. Fai del tuo meglio per dimenticare i miei giorni difficili. Lascia che il vento mi porti via. 
Il mondo non ci ama. Non voleva il mio destino. E adesso sto cedendo e sto abbracciando la morte. Perché nel tribunale di Dio incriminerò gli ispettori, l’ispettore Shamlou, il giudice, i giudici della Corte suprema che mi hanno colpita quando ero sveglia e non hanno smesso di abusare di me. Nel tribunale del creatore accuserò il dottor  Farvandi, e Qassem Shabani e tutti coloro che per ignoranza o menzogna mi hanno tradita e hanno calpestato i miei diritti.
Cara Shole dal cuore d’oro, nell’altro mondo siamo io e te gli accusatori e loro sono gli imputati. Vediamo quel che vuole Dio. Io avrei voluto abbracciarti fino alla morte. Ti voglio bene.

Reyhaneh 

sabato 25 ottobre 2014

Catia Pellegrino e gli ultimi giorni per gli ultimi

«Volevo essere con te. Non osare dimenticarmi. Ti Amo tantissimo, il mio desiderio è che tu non mi dimentichi mai. Stai bene amore mio. A ama R». Un brevissimo scritto trovato su un pacchetto di sigarette che ha viaggiato su un barcone di ferro e che il mare ha consegnato alla pietà delle coste siciliane, il testamento di un ragazzo alla sua amata, ripescato tra le tante lettere diverse nelle lingue eppure simili nel dolore acuto e nella speranza struggente. Come quest’altra, di un giovane di nome Samir, chiusa in una busta di plastica e mai arrivata a destinazione: «Mio adorato amore, per favore non morire, io ce l’ho quasi fatta. Dopo mesi e giorni di viaggio sono arrivato in Libia. Domani mi imbarco per l’Italia. Che Allah mi protegga. Quello che ho fatto, l’ho fatto per sopravvivere. Se mi salverò, ti prometto che farò tutto quello che mi è possibile per trovare un lavoro e farti venire in Europa da me. Se leggerai questa lettera, io sarò salvo e noi avremo un futuro. Ti amo, tuo per sempre Samir».
E poi le foto dei parenti lasciati in patria, documenti, oggetti vari. Uno smalto rosso sul ponte della nave insieme alle cose raccattate e gettate in fretta e furia dentro una borsa, prima di fuggire verso la vita. Forse.
Mi appaiono in sequenza accelerata gli sguardi inebetiti dal dolore davanti all’occhio della telecamera che documentava le operazioni di soccorso della Nave Libra della Marina Militare Italiana, che nell’ultimo anno è stata impegnata lungo le nostre coste per strappare ad un tragico destino migliaia di migranti, compresi donne e bambini, in fuga dal sud del mondo: Nigeria, Etiopia, Palestina, Egitto, Ghana, Eritrea.
Insieme a quegli sguardi inebetiti, mi appare vivo lo sguardo del Comandante della Nave Libra – il Tenente di Vascello Catia Pellegrino – prima  donna in Italia al comando di una nave militare. La stessa nave che l’11 ottobre del 2013 ha salvato 214 migranti durante un terribile naufragio. Una data storica da cui è nata l’operazione Mare Nostrum.
Un bellissimo film documentario racconta gli ultimi 60 giorni di Catia al comando della sua nave, ci fa innamorare del coraggio di una giovane donna che con grande determinazione e generosità ha messo tutte le sue energie, insieme a quelle del suo equipaggio, al servizio degli ultimi, guidando la nave tra i morti sparsi ovunque per dare soccorso ai superstiti.
Gli occhi di Catia scrutano il mare, pronta ad incrociare lo sguardo ferito di chi affida se stesso e tutto il suo mondo a mani fraterne. Con pochi ordini decisi al suo equipaggio, dirige le operazioni di soccorso per salvare quanta più gente possibile. Catia è instancabile e il suo sguardo è sempre pronto ad incrociare il bisogno, perché, come afferma «Quando si riesce a salvarli, ogni sacrificio ti scivola sulla pelle. Come schizzi di acqua di mare…». 

giovedì 23 ottobre 2014

Se questo è un uomo...

La persecuzione contro i cristiani non si ferma, anzi, cresce di giorno in giorno ovunque nel mondo. Pochi giorni fa Papa Francesco denunciava la crisi in Medio Oriente, dove da duemila anni i cristiani confessano il nome di Gesù e dove le persecuzioni e le violenze avvengono “nell’indifferenza di tanti”.
Soprattutto in Siria e in Iraq, dove il terrorismo ha assunto dimensioni spaventose e inimmaginabili e, come nei peggiori incubi, sembra scomparsa la coscienza del valore della vita umana.
Con questo segno ن. corrispondente alla venticinquesima lettera dell’alfabeto arabo (Nūn, equivalente alla nostra "n", iniziale di "Nazareno") i seguaci del califfato islamista (ISIS) stanno marchiando le case e gli edifici dei cristiani in Iraq.
Così tanti di loro sono stati brutalmente costretti ad abbandonare le loro case, senza aiuti e senza rifugio, e ora sono come agnelli circondati dai lupi. Nell’indifferenza di tanti, come denuncia il Papa.

Ma che fine ha fatto l’uomo?
Ci sono grida innocenti che spaccano in due il cielo.
Ci sono lamenti che straziano il cuore di Dio.
Ci sono verità che vanno guardate negli occhi. E c’è la nostra incomprensibile ignavia che raccoglie sulle nostre teste il nostro futuro tormento. La storia insegna. Pochi versi di Primo Levi, per non dimenticare… 


Voi che vivete sicuri,
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:

considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d’inverno.

Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi alzandovi;
ripetetele ai vostri figli.

O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.






martedì 21 ottobre 2014

C'era una volta la Storia

Il tempo corre con passo veloce. Dalle tv, dai tablet che ormai hanno colonizzato le nostre case e le nostre vite, straripa e incalza un tempo dal respiro sincopato, il respiro corto della cronaca. Le notizie del giorno sono state soppiantate da quelle dell’ultim’ora, ma il mondo globalizzato impone un passo ancora più frenetico e sui social network la notizia viaggia leggera in tempo reale.
Ridotto prima all’osso, poi completamente annullato il tempo della memoria, il respiro lungo della storia. C’era una volta una storia. C’era una volta la storia…
Quando ero piccola, mi piaceva tanto ascoltare le storie che mio padre mi raccontava: storie della sua giovinezza, storie del suo paese, storie di boschi e di animali. Ora che sono adulta, è rimasta mia madre a raccontare la sua storia, a tramandare i ricordi di un mondo che oggi non vedo più. Non so se fosse migliore o peggiore, so soltanto che erano le sue, le mie radici, e che da quelle storie di fatiche quotidiane, di povertà vissuta a tratti nell’orrore della guerra, di piccole gioie ritagliate nel tessuto della semplicità ma ricche di innocente bellezza, provengo anche io. I tratti di queste due vite, la sua e quella di mio padre, hanno dato vita ad una storia che mi ha accolto e fatto crescere, ed è il mio nido, la storia che tramanderò ai miei figli, insieme quella del padre.
E di storia in storia cresce in noi un senso di appartenenza al mondo, le nostre storie si intrecciano dando vita ad una grande rete che tutto attraversa e di cui tutti facciamo parte. La Storia.
C’era una volta la Storia, con la sua memoria e tutti i suoi insegnamenti.

Ora c’è il tempo reale. 

lunedì 20 ottobre 2014

Lo scandalo dell'Amore

“Coming out of the closet”, in italiano: “Uscire dall’armadio a muro”. Con questa espressione evocativa, si fa riferimento in modo particolare al momento in cui una persona non eterosessuale esce dal segreto del suo mondo per dichiarare a qualcuno il proprio orientamento sessuale.
Mi viene in mente la stessa immagine quando penso a una mia cara amica, che è finalmente uscita dall’armadio per sostenere davanti alla sua famiglia, ai suoi amici, ai colleghi di lavoro, davanti a tutti quanto ama il mondo e ogni essere umano, di qualunque colore, genere, età, parentela, nazionalità, orientamento sessuale e politico.
Sembra un paradosso, una provocazione, ma non lo è. La realtà è che amare senza pregiudizio, in maniera disinteressata, amare chi ti maledice, anche se è tua madre, amare chi ti tradisce, è la cosa più scandalosa che si possa concepire sotto questo cielo. Soprattutto in questi giorni tormentati dall’odio e dalle divisioni. Abbiamo fatto, con la mia amica, una bella e lunga conversazione telefonica durante la quale mi ha raccontato di essere profondamente cambiata negli ultimi tempi ed ora è completamente scomparso il timore di essere criticata senza appello quando mostra sincero affetto e rispetto verso chi non ha avuto e non ha nei suoi riguardi lo stesso atteggiamento.
Lei ha deciso di amare. Non lo nasconde nel segreto del suo intimo. Pazienza se dovrà affrontare gli sguardi di commiserazione dei più sulla sua ingenuità o gli amichevoli consigli dei dispensatori di saggezza sull’opportunità di aprire gli occhi davanti alla realtà delle cose: perché il mondo è un brutto posto, i luoghi di lavoro sono covi di serpi e la famiglia, poi, genera solo mostri. Meglio stare in guardia.
Lei no. Fa parte di quell’esercito di persone che porta avanti la sua rivoluzione scandalosa. Amare senza un ritorno, senza convenienza. Perché è bello amare. E’ bello a prescindere.

La primavera è già iniziata sotto la neve. In silenzio. Nessuno la può fermare. E ogni tanto, un fiore fa capolino sotto questo cielo… 

sabato 18 ottobre 2014

Tra Babilonia e Gerusalemme

Qualcuno ha detto che nel cuore di ogni giovane è nascosta la spinta a morire per una causa nobile, mentre all’uomo maturo è chiesto il sacrificio di vivere umilmente per essa. Fino alla fine.
A monte di questo c’è la scelta di un valore in cui credere. Uno scopo più forte di tutto per il quale lottare e morire, che ci fa sentire vivi e che da un senso ai nostri giorni. Qualunque sia la condizione in cui ci troviamo ad operare.
A valle, la battaglia quotidiana che ci vede impegnati sotto lo stendardo dei nostri principi e della nostra fede, di qualunque natura sia. Sì, perché la fede non è prerogativa dei religiosi, o dei laici credenti ma appartiene a chiunque. C’è chi ha fede in un altro essere umano, in una squadra di calcio, nella propria bellezza, nel piacere, nel denaro, nel successo, nel potere, e su questi fonda la propria esistenza e i propri sforzi. C’è chi ha fede in Dio. Nel Dio che è amore.
Paolo VI, che verrà beatificato domani, diceva che si predica solo attraverso l’amore. Parlava anche di “civiltà dell’amore”. E qualunque civiltà si costruisce, prima di tutto, dentro la famiglia, questa piccola comunità dove un uomo e una donna si sono liberamente scelti e amandosi hanno dato vita ad un altro essere umano da proteggere e crescere, fino a renderlo capace di compiere quelle scelte di campo che lo vedranno pronto ad offrire i propri sacrifici e la propria vita per esse.
In questo modo partecipiamo alla creazione. E siamo tutti chiamati a partecipare, con le nostre azioni, con le nostre parole, a costruire quella civiltà dell’amore in cui tutti vorremmo abitare. Prima di tutto nella nostra famiglia, che diventa così una piccola Chiesa domestica.
C’è una divina Parola che crea e che continua a creare in un presente senza fine, in un tempo fuori dal nostro ma che già lo abita per rivelarci l’eterno. Il tempo senza fine della Gerusalemme celeste, a cui però si contrappone la nostra Babilonia in terra, quell’inferno dove il tempo è denaro, dove il tempo è in mano ai potenti, dove il tempo del piacere scorre diversamente dal tempo del bisogno e non se ne prende cura. Il tempo del diritto ad ogni costo che lascia ogni dovere all’altro, anche quello di difendere la vita stessa. Compresa la vita di chi è impegnato a costruire Babilonia.
Mi è sempre più chiaro perché qualcuno ha detto che nel cuore di ogni giovane è nascosta la spinta a morire per una causa nobile, mentre all’uomo maturo è chiesto il sacrificio di vivere umilmente per essa. Fino alla fine… Io scelgo la civiltà dell’amore.

venerdì 17 ottobre 2014

Il rosario e la fede

Stasera, mentre cercavo l’interruttore vicino al letto per accendere la luce, ho sfiorato inavvertitamente il rosario appeso al muro. L’ho sentito tintinnare tra la parete e la grande conchiglia bianca dei pellegrini di Santiago di Compostela.
Quel suono mi ha chiamato, attirando la mia attenzione sulla sua esistenza, ma soprattutto sulla sua storia. E tu, quella storia la conosci bene, dato che quel rosario l’hai costruito proprio con le tue mani. Un grande rosario dai grani bianchi e con la croce in madreperla, lucente.
Era il tuo dono prezioso, il dono di un amico per il mio matrimonio.
Prezioso, sì. Perché arrivava da qualcuno che aveva sempre combattuto la Chiesa e coloro che la frequentavano. Perché così avevi imparato in famiglia, dove si respirava la libertà sudata dei figli di operai e conquistata a duro prezzo. Cresciuto con pane e cipolle. Ma figlio della libertà di pensiero. Non come quei bigotti che si vestivano a festa la domenica per chiudersi dentro le loro prigioni dorate e farsi indottrinare e istupidire dalle omelie dei preti di turno. No, tu eri un ragazzo, un uomo, libero. Nessuno ti avrebbe messo il cappio al collo, men che meno un cappio al cervello.
E allora non mi spiego questo tintinnio madreperlato, che insieme alla conchiglia canta una storia vecchia di qualche millennio che turba le orecchie di chi ama e mette, al di sopra di tutto, la propria libertà.
Non mi spiego perché, tra gli infiniti pensieri possibili, hai scelto di regalarmi, di regalarci, proprio un rosario. Così bello, così… non so.
Oggi, amico caro, sei lontano. Non dal nostro cuore ma soltanto dai nostri occhi.
Hai fatto le tue scelte, hai deviato il corso dei tuoi giorni, cadenzati dai gesti quotidiani, per esondare verso una vita nuova e verso nuovi orizzonti.
Ogni tanto mi giunge l’eco dei tuoi pensieri, ma solo un’eco di seconda mano. Non so che vita fai, non so cosa è rimasto oggi delle tue lotte appassionate per conservare spazi interiori a dispetto della follia umana che dilaga e preme, fino a togliere il respiro.
So che ora canti dentro un rosario. E brilli in una piccola croce incisa nella fede. Forgiata col tuo oro.

mercoledì 15 ottobre 2014

L'urlo e il silenzio

Quando la violenza bestemmia contro la verità,
quando l’ingiustizia toglie voce all’innocente,
quando la cecità si fa guida agli ignavi,
e la prepotenza impone a tutti i suoi diritti,
quando il nero avanza
e il bianco fugge di paura,
quando l’urlo sovrasta ogni parola, ogni voce
e il gelo spegne ogni fiammella,
quando ogni speranza sembra vinta
e ogni luce affievolisce
c’è chi non si da pace
e ancora in piedi… tace.
E tra le grida e le bestemmie,
gli insulti e le minacce,
il silenzio avanza, apre la porta ed entra.

E dal di dentro… interroga…


martedì 14 ottobre 2014

Il principio del Terzo

Riflettevo sul significato della relazione tra gli uomini. Del bisogno che ogni essere umano ha dell’altro – lo si riconosca o meno – di relazionarsi con un “tu” per scoprire e costruire se stesso. Ma perché ci sia davvero uno scambio, e affinché questo scambio avvenga in una ricerca onesta della verità, è necessario riconoscere anche il bisogno di un intermediario. Una terza presenza che si faccia garante della reciprocità tra i due.
Pierangelo Sequeri, teologo e musicista, parla del “principio del terzo”, per cui il rapporto senza mediazioni o intermediari è sempre presuntuoso, perché cancella il mistero dell’altro: l’altro che è Dio, l’altro che è l’uomo, e finisce per rendere falsa o solo apparente la relazione. In una relazione onesta, tesa ad una crescita matura, Dio rimanda all’uomo e l’uomo rimanda a Dio. Chi cerca d'incontrare Dio senza accogliere l'uomo vive una relazione falsa con Dio. Allo stesso modo, chi cerca di incontrare l'altro senza la mediazione di Dio, non potrà accedere ad una relazione veramente aperta e accogliente, improntata al rispetto e all'amore disinteressato.
A questo punto ho preso coscienza che, in un tempo relativamente breve e senza troppi sforzi, nella nostra società si è passati dal numero tre al numero due.
Dio è morto, come recitava la canzone di Francesco Guccini: È un Dio che è morto /  ai bordi delle strade, Dio è morto / nelle auto prese a rate, Dio è morto / nei miti dell'estate, Dio è morto.”
Ma Dio non è morto di malattia o per anzianità. In realtà l’abbiamo ucciso. E continuiamo a predicarlo morto.
Dopo il funerale, è stato davvero veloce e naturale passare dal numero due al numero uno. All’individualismo. All’egoismo. Al mondo unicellulare. Chiusi nelle nostre cellule, anzi, nelle nostre celle, a breve aspireremo a riprodurci da noi stessi, come le amebe.
La relazione muore con Dio. E con Lui muore l’Uomo. Ogni uomo. Siamo allo zero.
Da questo conto alla rovescia sopravvive soltanto una cellula cieca e informe. Che ha dimenticato persino la sua identità. Non più padre o madre. Uomo o donna. Solo una cellula cieca e aggressiva che si nutre dei suoi stessi umori.
Ma ogni cellula, anche se autoreferente, si muove immersa in un organismo che vive e continuerà a vivere, nonostante tutto. E chi è rimasto indietro, fermo al numero tre, sa bene che la morte è stata vinta per sempre. Da duemila anni. Per tutti.

Perché, come dice Guccini: “…noi tutti ormai sappiamo che se Dio muore è per tre giorni e poi risorge / in ciò che noi crediamo Dio è risorto / in ciò che noi vogliamo Dio è risorto / nel mondo che faremo Dio è risorto...”

domenica 12 ottobre 2014

Libri e penne sono l'arma più potente - Malala



Mi rattrista davvero tanto constatare che ovunque nel mondo è in azione un potere che mira ad erodere sistematicamente il diritto all’istruzione e alla libera informazione attraverso una sempre crescente difficoltà di accesso alla cultura e ai mezzi di comunicazione.
La difficoltà di accesso alla cultura oggi ha tanti volti e tanti nomi, tante motivazioni, non ultima quella economica. Chi ha figli sa bene quanto può essere complicato l’inizio dell’anno scolastico per via delle spese che improvvisamente fanno impennare i conti verso il tetto. Per chi ce l’ha ancora.
Ma non è tutto qui, purtroppo. 
Mi rattrista ancora di più constatare che tutto questo avviene in un imbarazzante silenzio da parte dei nostri governanti. 
Eppure…
…Ci sono Paesi, nel mondo, dove studiare può essere un problema molto più grande.
…Ci sono Paesi, nel mondo, dove studiare può essere pericoloso. Dove le bambine, per sedersi al proprio banco di scuola, sfidano ogni giorno la morte. E anche se il divieto di studio è rivolto “soltanto” alle bambine, nel caso di attentato terroristico possono lasciarci la vita anche i bambini di sesso maschile. Insegnanti e presidi compresi.
…Ci sono Paesi, nel mondo, dove un pugno di uomini armati di odio cieco decide con la forza che un intero popolo deve sottostare alle proprie regole. Pena la morte. Senza accorgersi che chi davvero muore è colui che nega all’altro il diritto alla vita, il diritto al rispetto delle proprie idee e della propria libertà nel rispetto di quelle altrui.
…C’è un Paese, il Pakistan, culla di una tra le più antiche civiltà del mondo, dove nel 2012 una bambina di 13 anni è stata condannata a morte dai talebani perché voleva andare a scuola e difendere il suo diritto allo studio.
Quella bambina, Malala, è sopravvissuta all’attentato e dopo una difficile operazione chirurgica a Londra e una lunga convalescenza ha parlato al Palazzo di Vetro dell’Onu:
«Il loro proiettile non mi ridurrà al silenzio… Quando mi hanno sparato la paura è morta così come l’essere senza speranza». Da quella raffica di Ak-47 sono nati «forza e coraggio».  
Malala ha concluso il suo coraggioso discorso tra i potenti lanciando al mondo il suo dirompente messaggio:
«Prendete i vostri libri e le vostre penne, sono la vostra arma più potente. Un bambino, un insegnante, una penna e un libro possono cambiare il mondo».
Prego affinché il messaggio di Malala possa assordare le orecchie e rimbombare nel cuore di ogni uomo e di ogni donna di buona volontà.



Il 10 ottobre 2014 Malala Yousafzay ha ricevuto il Premio Nobel per la pace. E’ la persona più giovane ad esserne stata insignita, con questa motivazione:
“Nonostante la sua giovane età Malala Yousafzay ha già combattuto diversi anni per il diritto delle bambine all’istruzione ed ha dimostrato con l’esempio che anche bambini e giovani possono contribuire a cambiare la loro situazione. Cosa che ha fatto nelle circostanze più pericolose”


Mentre ad Oslo le veniva assegnato il Premio, Malala era a scuola, come sempre.