mercoledì 30 aprile 2014

La croce degli armeni

Pensando al dolore, di qualunque natura, con ogni probabilità verrà in mente la croce. Nel linguaggio comune, croce è sinonimo di dolore. E pensando alla croce, è normale immaginare la croce latina, quella che vediamo rappresentata ovunque e che ha un posto d’onore nelle nostre chiese.
Ma fin dai tempi più antichi l’uomo ha utilizzato il simbolo della croce e ne esistono numerosi tipi, diversi per significato e provenienza. Basta dare uno sguardo su internet per scoprire un mondo variegato ed interessante. Tra i vari tipi, uno ha attirato la mia attenzione già da alcuni anni, in modo particolare: la croce armena. E’ come la croce latina, ma sugli angoli dei quattro bracci è rappresentato il trifoglio, simbolo della Trinità. Ma questo l’ho scoperto solo dopo. 



L’avevo vista per la prima volta dentro la modesta cappella di un centro di recupero di giovani in difficoltà. Mi aveva colpito la ricchezza e armonia di colori contenuti in quella croce appesa alla parete bianca. In qualche modo mi aveva parlato all’anima sottovoce, a mia insaputa.
Ho sentito per caso, pochi giorni fa, il racconto di un anziano sacerdote, di ritorno dalla missione. Era rimasto profondamente colpito da una croce armena che gli era stata regalata da alcuni giovani del posto: una croce fiorita. Perché il popolo armeno associa alla croce la bellezza e la gioia. E ogni croce è personalizzata perché ciascuno partecipa in modo unico al sacrificio e alla risurrezione di Cristo.



Ararat, nome del monte dove si arenò l’Arca di Noè, in lingua armena significa “Creazione di Dio”. Il monte si trova in Turchia, ma fino a non molto tempo fa apparteneva geograficamente all’Armenia. Fin dall’Antico Testamento questa terra ha avuto un ruolo speciale.



Secondo la tradizione il Vangelo fu portato in quel regno dagli apostoli Giuda Taddeo e Bartolomeo. Nell’anno 301 d.C. l’Armenia proclamò il cristianesimo religione di stato, diventando così il primo popolo cristiano della storia.
Il cristianesimo è talmente incardinato nel popolo armeno che, secondo quanto ha scritto un cronista, “ciò che distingue gli armeni non è la loro razza ma la religione. Toglietegliela e gli avrete tolto la carta d’identità.”
Ma loro no, non si sono fatti strappare la loro identità. Hanno piuttosto preferito farsi strappare la vita.
Il 24 aprile 1915 è iniziato lo sterminio del popolo armeno per mano dei turchi. Il primo genocidio del XX secolo. Circa un milione e mezzo di vittime innocenti. Un altro primato, questo, di sicuro non desiderato.
I responsabili di tale orrore sono rimasti a tutt’oggi impuniti e lo stesso governo turco ancora oggi nega che sia mai avvenuto. Rimangono dolorosamente vive e attuali le parole dello scrittore ebreo Elie Wiesel, premio Nobel per la Pace nel 1986, sopravvissuto all’Olocausto: “Il genocidio uccide due volte, la seconda con il silenzio”.

Eppure quella piccola croce fiorita, che ha l’abbraccio della Trinità, quella croce armena piena di colore e di gioia, racconta un’altra storia: la storia di un popolo, quello cristiano, capace di far fiorire la bellezza da ogni cosa. Anche dalla morte.






domenica 27 aprile 2014

Il giorno dei quattro Papi


Oggi è il giorno che verrà ricordato come il giorno dei quattro papi. Due proclamati santi, due ancora nel cammino di santità. Sono arrivati dai quattro angoli della terra, uno di loro chiamato dalla fine del mondo. Tutti con un’unica missione: portare a ciascuno di noi il messaggio della Misericordia di Dio.
Un giorno, ormai sono più di duemila anni fa, un Uomo è entrato nella Storia per amore. Da allora bussa alla porta di ogni cuore e aspetta paziente di poter entrare nelle nostre piccole storie per offrirci quella gioia che non sappiamo più dove cercare. Gioia che non avrà mai fine.
Quell’Uomo ci chiede di uscire dalle nostre piccole storie per entrare nello sguardo dell’eternità.
I quattro papi, ognuno col suo modo semplice e vero, ci accompagnano lungo la strada che porta alla vera gioia. Come veri pastori di gregge. Perché nessuno di noi si smarrisca nel buio…



“Tornando a casa... date una carezza ai vostri bambini e dite loro: Questa è la carezza del Papa" (Giovanni  XXIII)



“Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!” (Giovanni Paolo II)




“Lasciatevi sorprendere da Cristo. Egli non toglie nulla, dona tutto” (Benedetto XVI) 

“Il segreto della vita cristiana è l'amore. Solo l'amore riempie i vuoti, le voragini negative che il male apre nei cuori” (Francesco) 


sabato 26 aprile 2014

La fontana del villaggio




C’è una fontana
nella piazza del mio villaggio.
Una fontana da cui sgorga acqua fresca
e chiara.
Puoi sentire da lontano la sua gioia di donarsi
al pellegrino assetato,
il suo entusiasmo nel tuffarsi generosa nelle brocche delle donne
che portano vita alle case.
Puoi sentire da lontano le sue parole trillanti,
la sua voce domenicale di pace.
Puoi vedere i suoi frammenti di gocce 
salire in dolci volute di nebbia
che il sole colora di arcobaleno.

C’è una fontana
Nella piazza del mio villaggio
Dove tutti ci si ritrova
Quando il tempo è bello.
Dove la vita è semplice
E tutte le seti sono cancellate.

C’è una fontana
nella piazza di ogni villaggio.

C’è una fontana che sgorga da ogni chiesa.

(Patrizia)



Papa Giovanni XXIII amava definire la Parrocchia come la “fontana del villaggio” alla quale ognuno può ricorrere per estinguere la sua sete spirituale e non solo…


venerdì 25 aprile 2014

Notte di Bonaria

Notte di cammino, notte di Ave Maria.


Di Bonaria celeste Regina
Salve, o Madre, che il cielo ci diè.
Te saluta e devota s’inchina
la Sardegna che esulta per Te.





Veniamo, come figli, a ringraziare,
ma Tu, Madre, mai ti farai superare…

giovedì 24 aprile 2014

Il poeta e il mistico



Il poeta nasce dal silenzio.
Il mistico nasce dalla Croce.

Poeta e mistico si incontrano nel deserto.


Il tempo


Mi levo,
in silenzio,
le scarpette da danza
e con gli occhi
fissi nel vuoto
Ti aspetto, Tempo.

Ho deciso di non seguirti più.

Non voglio
correrti dietro,
ansimando e gemendo,
sperando
in una tua dimenticanza
per poterti raggiungere.

Sto qui.

Sono seduta
e Ti aspetto.

Ho imparato da sola
che la tua maratona
è un girotondo
d'illusioni e sberleffi
e il tuo cerchio,
domani,
si chiuderà qui.

Seduta,
aspetto il Tempo.

(Patrizia)


Il pane

Da secoli, qualcosa di speciale e unico accompagna e sostiene la vita dell’uomo: il pane.


Il pane è segno di ospitalità, di condivisione, simbolo di gioie semplici e durature. L’abbondanza del pane è metafora di abbondanza di beni materiali e spirituali.
Con pochi e semplici ingredienti è possibile a chiunque prepararlo, ma dietro questi semplici ingredienti c’è tanto, tanto di più di quanto a prima vista appare.

Primo ingrediente: la farina.


Frutto del lavoro dell’uomo che ara con fatica, semina, si prende cura della terra, la nutre e sa attendere il tempo giusto per la mietitura.

Secondo ingrediente: l’acqua.


L’acqua è dono di cui l’uomo dispone per la sua esistenza. Senza non può vivere. Il nostro corpo è costituito in gran parte di acqua. Perciò l’acqua è un dono prezioso da custodire, da amare, da rispettare. L’acqua ci mantiene in vita e ci purifica, fuori e dentro. Nelle acque materne abbiamo iniziato il nostro viaggio quaggiù.

Terzo ingrediente: il sale.


Questo elemento, come l’acqua, è parte integrante del nostro corpo e consente di mantenerne il delicato equilibrio idrico, evitando la disidratazione. Il sale, dunque, ha un ruolo fondamentale nella nostra esistenza. Col sale abbiamo scoperto che potevamo conservare i cibi più a lungo, quando ancora non esistevano altri sistemi. Il sale da sapore ai cibi che non ne hanno, rendendoli gradevoli al gusto. Quando fatichiamo, nel sudore della nostra fronte, c’è il sale.

Il quarto ingrediente è il lievito. Non tutti, e non sempre, lo utilizzano. Per il lievito bisogna saper attendere il tempo giusto. Come per la mietitura. Per ogni cosa c’è un tempo giusto. Lo sapevano bene i greci, che avevano due termini diversi per indicare il tempo: kronos, che indicava ciò che noi conosciamo come tempo. Differente da kairos, che si riferiva al momento giusto o opportuno, quel tempo indeterminato in cui accade qualcosa di speciale, il tempo di Dio.
Per il lievito, per la mietitura, per ogni cosa portata al suo compimento, bisogna attendere il kairos.
Ma ciò che porta a compimento ogni lavoro, ogni fatica, ciò che fa maturare il kairos, è un ingrediente che non compare nelle ricette: il fuoco.

Per un cristiano, il fuoco dello Spirito Santo.


mercoledì 23 aprile 2014

Lo sguardo

L’avevo cercato a lungo senza neppure saperlo. Quando l’ho incontrato, attraverso uno sguardo amorevole e paziente, che mi ha inseguito e accompagnato nel tempo attraversando persone e situazioni diverse, mi ha messo in crisi. Ma ancora non capivo.
Ero ai primi mesi di gravidanza. Mi trovavo davanti alla cassa di un supermercato e quel giorno ero cupa e sovrappensiero.  Ad un tratto ho avuto la netta sensazione di essere guardata, ma con una forza che mi richiamava in modo irresistibile. Mi sono voltata di lato e l’ho visto: un bambino, poteva avere non più di dieci mesi. Stava beatamente seduto nel passeggino, e aspettava che mi voltassi. Appena i nostri occhi si sono incontrati mi ha regalato un sorriso pieno di conforto, così rassicurante che ho provato un tuffo al cuore dall’emozione. Non era un semplice sguardo, era molto di più. Da quegli occhi mi guardava Qualcuno che non conoscevo, anzi, che non riconoscevo. Ma il cuore trovava pace.

Un altro episodio. Percorrevo un marciapiede, mattina presto: incontro un uomo con barba lunga e un’aria profonda e antica, che non so spiegare. Al collo aveva una croce. Mi passa vicino e mi fissa. No, mi trapassa. Un tuffo al cuore. Ancora quello sguardo, che non so decifrare ma che riconosco essere lo stesso che mi segue amorevolmente, da tempo, attraverso occhi diversi…




Nel corso degli anni, ho vissuto altre esperienze simili.

C’era un quadro appeso nella casa dei genitori di mio marito, dove Gesù, seduto ad una tavola modesta, spezzava il pane davanti a due uomini che lo guardavano estasiati. Non sapevo cosa rappresentasse, ma mi affascinava. Avrei voluto essere lì, dentro quella scena così traboccante di semplicità e bellezza. Molti anni dopo ho saputo che erano i discepoli di Emmaus, quelli che dopo la Risurrezione l’avevano incontrato lungo la via, quelli che ci avevano parlato ma non l’avevano riconosciuto se non al momento dello spezzare del pane, nella loro casa.



E un giorno, dopo averlo più volte incontrato, dopo averlo guardato a lungo e avere sentito le sue parole che guariscono e illuminano, finalmente anche io l’avevo riconosciuto. Nella Parola e nel Pane. Nell’incontro sincero con l’altro.
Perché Gesù vive nel tempo, nel nostro tempo. E’ qui, con noi. Oggi. La fede è frutto di un dono. Io quel dono l’ho ricevuto e cerco con ogni mezzo di conservarlo come il bene più grande e prezioso della mia vita. Per niente al mondo vi rinuncerei.

Ora anche io dico, insieme ai discepoli: “Resta con noi, Signore, perché si fa sera…”


martedì 22 aprile 2014

Tempo di carosello



Quando il tempo era bello, si giocava per strada, sotto l’occhio vigile delle mamme affacciate ai balconi, che all'inizio del carosello ci richiamavano per la cena. Le grida spensierate dei bambini si mescolavano, tra terra e cielo, coi garriti delle rondini, dando vita a composizioni musicali che mai più avrei dimenticato.
Ci si divertiva in tanti modi e con vari oggetti: palla, corda, pattini. Per giocare a campana bastava una pietra. I benestanti avevano la bici. Ma i giochi più belli erano quelli di gruppo. Tra questi, il mio preferito era il gioco delle belle statuine, che mi ha lasciato un segno indelebile nell'anima. Solo da adulta ho capito fino in fondo perché.
Il gioco si svolge così. Un gruppo di bambini forma un girotondo e chi guida il gioco canta una filastrocca. Quando il canto finisce il girotondo si scioglie di colpo e ogni bambino si ferma nella propria posa ad occhi chiusi. A questo punto la guida si avvicina, in punta di piedi, a risvegliare uno ad uno i “dormienti”, mettendo al centro del girotondo il prescelto, cioè il bambino dalla posa più bella, che diventa la nuova guida. E il gioco ricomincia.


Ero ferma nella mia posa, ad occhi chiusi. Attendevo il tocco leggero di mano che mi avrebbe risvegliato. Il tempo passava e non succedeva nulla. Troppo silenzio intorno.
Decido di socchiudere almeno un occhio, anche se la lealtà nel gioco era una regola ferrea.
Ma gli occhi si sono aperti insieme, e di colpo, quando mi sono vista circondata, sì, ma non dal girotondo di visi conosciuti… intorno a me stava un gruppo di zingari del campo rom, dei quali avevo tanta paura perché così mi avevano insegnato a fare. Mi guardavano con aria palesemente incuriosita, senza capire che cosa ci facessi in mezzo a un marciapiede, sola, in quella posa assurda…
Con una corsa forsennata ho raggiunto il mio gruppo di piccoli amici che nel frattempo si erano andati a nascondere dietro un palazzo vicino lasciandomi in balìa dell'ignoto.
Non ho più dimenticato quella sensazione di puro terrore, di umiliazione e di sdegno per essere stata abbandonata senza alcuna pietà.
Ma oltre a queste, una sensazione indecifrabile si è aggiunta nel tempo. La sensazione di avere vissuto qualcosa di importante, di avere ricevuto un insegnamento segreto.
Solo dopo tanti anni, dopo avere ritrovato il senso più profondo della mia vita, è diventata chiara.
Perché ora so che ognuno di noi ha bisogno di essere “risvegliato” dal buio dell’incoscienza, dal buio dell’attesa, dell’immobilismo che ci esclude dalla gioia di essere parte di un mondo luminoso.
So che ognuno attende una mano che con tocco leggero ci risvegli dal sonno. Come quella che un giorno ha risuscitato me. Ora voglio anch'io essere mano che risveglia. 

Per ricordare a tutti che in noi convivono terra e cielo. E che quando terra e cielo si incontrano, nello spazio di un cuore nuovamente aperto, possiamo ancora sentire le grida spensierate dei bambini mescolate ai garriti delle rondini. Possiamo risentire quelle melodie celestiali.


lunedì 21 aprile 2014

Gesù cammina per le nostre strade



In quel tempo, abbandonato in fretta il sepolcro, con timore e gioia grande, le donne corsero a dare l'annunzio ai suoi discepoli. Ed ecco Gesù venne loro incontro dicendo: <Salute a voi>. Ed esse, avvicinatesi, gli presero i piedi e lo adorarono.
Allora Gesù disse loro: <Non temete; andate ad annunziare ai miei fratelli che vadano in Galilea e là mi vedranno>.

Dopo la Pasqua, l’annuncio. Quella notizia, unica nella storia, affidata a delle donne semplici, ha attraversato i secoli ed è giunta fino a noi. Andate in Galilea: là mi vedrete.

Instancabile nell'amore, ancora oggi Gesù cammina per le nostre strade, attraversa le nostre città e ci attende nella nostra Galilea. Gesù è con noi. Per ognuno ha scelto un luogo per l’incontro. Per ognuno una Via speciale. Per ognuno un giorno. Ognuno è atteso in Galilea. Gesù è sulla tua via.



domenica 20 aprile 2014

Canta, è Pasqua





Canta, cuore, suona a festa.
E’ Pasqua.
E’ giorno di Risurrezione.
E’ il giorno in cui la Luce ha vinto il buio, per sempre.
E’ il giorno in cui l’Uomo da gloria a Dio.
E’ il giorno in cui Dio glorifica l’uomo.
Il giorno in cui la Vita risveglia se stessa.
Da allora, ogni giorno è Pasqua.
E’ Pasqua ogni volta che chiedo perdono.
E’ Pasqua ogni volta che sono perdonato.
E’ Pasqua ogni volta che amo e ogni volta che sono amato.
E’ Pasqua ogni volta che mi risollevo dal fango.
E’ Pasqua quando accetto chi sono.
E’ Pasqua perché sono figlia di Dio.

Canta, cuore mio.

sabato 19 aprile 2014

L'ultima parola non è la morte


Quella tomba vuota. Che sgretola le vecchie certezze. Che parla del grande mistero della vita.
Posta al confine tra luce e buio. O tra il buio e la Luce.


Le bende a terra, raccontano una veste di carne trasfigurata di gloria.
E tutto ha senso.
Tutto è gioia.
Perché male e morte non avranno l’ultima parola.
Perché l’ultima Parola è Vita.

Eterna.

STABAT MATER

“…uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua.”
“... e anche a te una spada trafiggerà l'anima.”



Stabat Mater.
Nella notte di fede più buia.
Stabat Mater dolorosa.
Ai piedi del dolore più grande mai accolto.
Stabat Mater dolorosa.
Nel tempo del compimento della Salvezza.
Stabat Mater dolorosa.
Davanti a tutto un mondo chiuso all’Amore.
Stabat Mater dolorosa.
Davanti alla nostra iniquità.

Stabat Mater dolorosa.

(Patrizia)


venerdì 18 aprile 2014

FINE?



F I N E?
I N I Z I O
N U O V A
E R A!

Raccontami, mamma!

Raccontami, mamma, racconta la mia storia.
Dimmi dov’ero quando ancor non c’ero.
Dimmi, ancora, cos’hai provato quando due ali ti hanno turbato,
quando hai accolto la Luce nel tuo ventre.
Cosa mi cantavi, ninna il tuo tesoro come tu sai fare.
Dammi il tuo sorriso e guarda con me il cielo da dove sono sceso.
Raccontami mamma, racconta la mia storia.
Di come ti saltava il cuore in petto quando in Quel giorno ti sei riflessa nei miei occhi
e il Paradiso era disceso sulla terra.
Quale gioia hai provato quando mi hai tenuto stretto al seno?
Dimmi mamma, canta la gioia del tuo cuore
quando ti tendevo le manine per salire in braccio al mondo.
Ricordi, mamma, quando il tuo Sposo intagliava per me
le pecorelle e nel silenzio giocavo
ma allora non capivo dove fosse l’agnello.
Cantami mamma, canta ancora la tua ninna nanna…
Falla arrivare fin quassù, rivesti di dolcezza il sacrificio,
sostienimi nell’ora dell’offerta.
Mamma mia santa, canta, canta.
Profuma del tuo cielo il mio dolore, stammi accanto mamma,
non mi lasciare.
Ricordi la tua angoscia, mamma, quando mi perdesti e la gioia, poi,
al terzo giorno, di ritrovarmi?
Ecco, sto per partire, ma tu, Madre, non te ne andare.
Cantami, mamma, cantami ancora
la tua dolce ninna nanna..

(Patrizia)


Getsemani


“Non siete stati capaci di vegliare un’ora sola con me?”


Nelle sue ultime ore sulla terra, le più terribili, è stato abbandonato dai suoi amici.
Nel Getsemani, Gesù è solo.
Suda sangue, ed è solo.
Completamente solo…

Insieme, vogliamo vegliare un’ora almeno con Lui?



Acqua viva

... e scorrono fiumi di acqua viva
... e scorrono fiumi di acqua viva
... e scorrono fiumi di acqua viva
... e scorrono fiumi di acqua viva


... e scorrono fiumi di acqua viva
... e scorrono fiumi di acqua viva
... e scorrono fiumi di acqua viva
... e scorrono fiumi di acqua viva


... e scorrono fiumi di acqua viva
... e scorrono fiumi di acqua viva.




lunedì 14 aprile 2014

Volo del seme

La salita al colle si fa più faticosa. Sarà che è iniziata la primavera e la terra si fa più vicina al sole. Intorno la natura vibra di colori e ronzii e profumi che risvegliano la mente e l’aria brulica di vita e di attività, come un grande alveare a cielo aperto.
Un piccolo seme volteggia davanti al mio viso. Mi pare di sentire la sua voce.

Oggi mi sono staccato dal tuo corpo, madre, e mi sono ritrovato a volare. Sfiorato dagli uccelli, a mia volta dotato di piccole ali lanuginose che brillano al sole di aprile, ho sorvolato un manto di verde pulsante. Sopra di me l’azzurro infinito.
Mi sembra di vivere un sogno. Sono cresciuto aggrappato alle tue cellule, dapprima un piccolo seme, infinitesimale, poi, via via, più grande e più forte. Ho succhiato da te la vita, mi hai offerto energia perché il mio corpo completasse il suo ciclo di crescita. Ed ora è arrivato il momento di andar via.
Avevo sempre cercato di immaginare il mondo oltre i nostri confini. Già l’intravedevo. Ombre, fruscii di colore, piogge di luci. E la tua voce. Incessante, un’onda fremente, scivolosa, fresca e benefica, qualche volta cupa, sorda, gigantesca. Mi sentivo sballottato, cullato, ninnato. Non avevo paura. La tua forza mi rassicurava. Ma nei miei piccoli giorni cresceva il desiderio di sapere cosa viveva più in là, a chi appartenevano quelle altre voci che in certi momenti creavano un’armonia sulla quale era bello navigare e lasciarsi trasportare fino a sfiorare, col fiato sospeso, una vetta irraggiungibile. Ma io quella vetta volevo toccarla, guardarla, conoscerla.
Volevo nascere.
E’ bastato un soffio d’aria e il filo che ci univa di colpo si è spezzato. Un attimo di stupore e poi, a cavallo del vento, su una minuscola sella di speranza, è iniziato il mio viaggio verso la conoscenza, attraverso la storia del mio popolo immobile e maestoso, custode dei segreti della terra.



Un piccolo seme che sfiora la mia guancia, mi racconta la storia di un popolo.
Rimango incantata nello scoprire quanta saggezza si nasconde dietro ogni vita. Dentro il creato. Scopro con gioia di far parte integrante di questo grande alveare dove ogni cosa ha un suo posto e un suo ruolo preciso. Unico e irripetibile. Sento in modo intenso e doloroso la bellezza di esistere dentro questa vita. Così com’è. Così come sono.
Acqua che affiora dal lago profondo dell’essere. Sorgente di vita.
E un piccolo seme che toccherà terra. Marcirà. Farà nascere una nuova vita.

sabato 12 aprile 2014

Via ogni crocifisso

Non ricordo bene quando, ma ad un certo punto ho avuto la certezza che gran parte degli accadimenti della mia vita, in particolare quelle situazioni che sbrigativamente definiamo “coincidenze”, erano stati in realtà veri e propri appuntamenti di preparazione all’unico, grande appuntamento della vita: l’incontro con Te, Gesù.
E’ impossibile descrivere questo viaggio dello spirito, questo senso di meraviglia che ti compenetra e ti trasforma poco per volta, quasi a tua insaputa, in una persona nuova.
O forse è più corretto dire, molto più semplicemente, che ci restituisce quel senso di Grazia e Bellezza della prima infanzia.
A volte mi sento come una bambina, una bambina adulta che un giorno ha finalmente deciso di aprire davvero la porta del cuore e si è trovata di colpo davanti ad un tesoro di delizie mai immaginate prima e solo vagamente percepite nei momenti di maggiore ispirazione.
La consapevolezza di questa nuova vita, la gioia di cui mi riveste e la pace con la quale mi difende come scudo, non eliminano le insidie e le prove disseminate lungo il cammino. Semplicemente, le rendono sopportabili. Piccole o grandi che siano. Capisci che Qualcuno ti sostiene e cammina al tuo fianco. Solo che tu lo voglia.
Il vero Cireneo sei Tu, Gesù.
Sapevi, vero, che risuscitare il tuo amico Lazzaro, avrebbe comportato la tua condanna a morte? Che questo gesto di amore fraterno avrebbe definitivamente legittimato i tuoi nemici nel decretare che ormai non c’era più tempo da perdere e che bisognava eliminarti per evitare che crescesse troppo la tua credibilità davanti a tutti?
Si, molto meglio eliminare qualunque segno di miracolo, qualunque segno che potesse anche solo far insinuare l’ombra di un dubbio nella supremazia umana rispetto al divino. Meglio cancellarne ogni traccia. Meglio eliminare Dio stesso. Anche oggi. Anzi, oggi più che mai.
Mi viene in mente una richiesta insolita che una mattina, appena entrata al posto di lavoro, un collega preoccupato del mio futuro mi aveva rivolto, lasciandomi letteralmente senza parole per alcuni istanti: “Sai, ora che stai cambiando ufficio, sarebbe meglio lasciare perdere quel crocifisso… Non piace a qualcuno che conta… magari tienilo nel cassetto, ma non appenderlo al muro.”
Un consiglio da amico. Che ho tralasciato di seguire.


Via il Crocifisso. Già, via all’unico vero specchio. Troppo scomodo. Via al dolore osceno dell’Innocente. Osceno, perché ci inchioda alle nostre mancanze.
Le nostre miserie ci condannano, appese ai muri delle scuole. Le assenze urlano più forte da quelle mani bucate e sanguinanti che dai registri dei professori. Ma gli occhi dei nostri bimbi devono riposare sull’immagine del successo, non sull’icona del fallimento.
Via il Crocifisso dalle aule dei tribunali, dove il Suo sguardo morente abbraccia di misericordia scritte bugiarde che inneggiano a una giustizia uguale per tutti.
Via il Crocifisso dai posti di lavoro. Il tempo è denaro, l’attività non va interrotta e disturbata da quegli occhi che, solo a fissarli un attimo, ci potrebbero carpire un’emozione involontaria di pietà. Non è tempo, non è il luogo. Non va bene.
Via ogni barlume di responsabilità verso l’altro, verso il più debole, l’altro che si carica ogni giorno sulle spalle le conseguenze del nostro egoismo. E che ogni giorno si accascia e muore sotto il peso dell’indifferenza. La nostra.
Via ogni Crocifisso malato senza speranza, inchiodato su un letto e pronto a partire per l’altrove, come piuma a cavallo di un soffio. Via ai Crocifissi che si infrangono sulle nostre belle coste dentro barconi arrugginiti, ricchi solo di sogni e di speranza.
Via ogni Crocifisso senza fissa dimora, quelli che non puoi neppure appendere ai muri, perché un muro non ce l’hanno. Ma hanno la sfrontatezza di circolare per strada coi loro abiti sporchi, con la vita chiusa dentro poche buste e quello sguardo penetrante che ti inchioda. Via anche loro.
Via i Crocifissi invisibili che dimorano in grembi inospitali, tanto inospitali che troppo presto, da nidi accoglienti, si trasformano in gelide tombe di carne. Perché morte e vita, a volte, si incontrano nello spazio di un istante. Piccoli Crocifissi tanto poveri da non avere neppure un nome.

Ma Tu sei il Signore, così Signore che ci conservi la gioia di credere che anche noi, pur così fragili e miseri, possiamo aiutarti. E nel segreto del cuore, nel tempio sacro dove solo Tu hai accesso, un piccolo Crocifisso di carne si imprime nel cuore. Da qui, nessun uomo potrà più scalzarlo.

lunedì 7 aprile 2014

In cammino

Ogni passo è una scoperta, sia che questo avvenga nello spazio segreto dell’anima che nei segni esteriori. E ogni passo in avanti, ogni singolo gesto di apertura verso l’altro, in realtà è un passo verso me stessa. Mi sorprendo ogni giorno come parte di un tutto immenso, mistero a cui tendo fin da che ricordo di esistere.
Cammino, forse da un’ora. La strada sale verso la cima del colle su un versante profumato di macchia mediterranea. Il vento di maestrale ha spazzato via l’umido e il mondo riprende il suo colore e i contorni di ogni cosa appaiono netti e precisi.
Alzo lo sguardo al cielo…


… Ricordo ancora quella gonna di panno plissettata a quadri rossi, gialli e bianchi. Me l’aveva confezionata mia madre nei ritagli di tempo con un ritaglio di stoffa del suo vestito. Io ero orgogliosa di riprodurre in piccolo un pezzo di lei attraverso quei colori che sapevano di amore.
Quando la indossai per la prima volta cinguettavo per tutta la casa in attesa che anche lei fosse pronta a tuffarsi insieme a me tra la folla, in quel caos di gambe che mi arrivavano al viso. E poi vetrine colorate, scalpiccìo di tacchi di donna, le scie di profumi sconosciuti da seguire come un cane da caccia. Tutto era nuovo, tutto brillava di vita, i miei sensi non si potevano saziare. Proprio come ora su questo colle. Stavo appesa alla mano di mia madre, saltellandole al fianco per tenere il ritmo del suo passo deciso. Di tanto in tanto inciampavo e d’istinto le stringevo più forte la mano. Lei rispondeva alla stretta con la velocità del pensiero, come fossimo un unico corpo. Mi affascinava quell’intesa, vivevo immersa in quel magico mondo pieno di stimoli ma che risvegliava uno strano sentimento che mi portava a vivere con intensità ogni singolo gesto per non sprecare neppure un attimo. In qualche modo percepivo che non sarebbe durato per sempre. Anni dopo avrei capito che quel sentimento aveva un nome: nostalgia. Ma intanto i miei polmoni si dilatavano di gioia selvaggia mentre, al riparo della sua mano, sperimentavo il mondo. Una  pozza d’acqua nella quale specchiarsi  e… cioc… un grande salto per non bagnarsi.
Anche ora mi specchio in una pozza d’acqua. Immagine distorta. Ma la vedo solo io. Io e Dio.

Un giorno vorrei abbassare lo sguardo e scoprire sul pelo dell’acqua, fatta ormai trasparente, la Tua immagine. 

domenica 6 aprile 2014

Tornare a casa

Quand’è che ho gridato: “Voglio tornare a casa?”
Si, ricordo, anche se sono passati ormai degli anni, tanti anni. Una vita fa. Non ricordo tanto l’ambiente, a parte che era notte e le stelle bucavano di luce il blu. E una finestra sul cielo, e la mia voce che di colpo tremava mentre dal cuore spaccato saliva questo canto implorante: “Voglio tornare a casa!”
I singhiozzi come tante preghiere. E’ questa la preghiera del cuore? Col senno di poi, riconosco in quelle lacrime l’acqua della grazia che scorre in noi, nel profondo, dal momento in cui riceviamo la vita vera, non quella data dalla madre e dal padre, ma la vita dei figli di Dio. Con ogni dovuto rispetto per i genitori.
In quella notte, con la libertà di figlia di Dio, la mia anima aspirava a ricollegarmi alla fonte originaria. La mia anima gridava:  PADRE!
Posso dire che è iniziato tutto con quel grido? Non saprei.  So però che mi si è stampato sulla carne e ancora mi parla e mi interroga.
Poco prima di partire, ho visitato un impianto di potabilizzazione. Già, perché l’acqua che viene giù dal cielo, toccando la nostra povera terra, si sporca. Mi fa pensare ad un altro dono che scende dal cielo e che toccando la nostra povera umanità, perde la purezza.

Ho dato inizio al mio processo di potabilizzazione.


giovedì 3 aprile 2014

L'abito


Sento il vento che mormora tra i rami. Mi immergo in questo silenzio dell'anima. Era tanto che lo desideravo ma avevo dimenticato la strada.
Mi seguono come ombre i fantasmi di vecchie emozioni: alcune le ho trascritte, altre, troppe, sono state strappate dal cuore dal vortice dei giorni ed ora stanno impigliate come piume d'uccello su rami spinosi. Come questa che ancora il vento mi sussurra all'orecchio e mi ricorda che...

... Un raggio
di amore libero
ha sciolto il cristallo
di lacrime antiche
che spandendosi attorno
avvolgono un corpo
indurito dalla tristezza.


Mi hai regalato un abito
trasparente e salato,
un abito
che attira gli sguardi
che suscita invidia.
Così delicato
da far commuovere,
così lucente
da ferire gli occhi,
così potente,
da far fuggire atterriti.
E tu,
perché non fuggi?

(Patrizia)